American Life: un film on the road e dall’estetica low budget

American Life (Away we go)
Ttitolo modificato probabilmente per creare un trait d’union col film più celebre American Beauty di Sam Mendes: American Life è una commedia indipendente americana, frizzante, leggera, curiosa.
Burt e Verona (Burt Farlander e Verona De Tessant) sono una coppia di trentenni in attesa di un figlio, incerti su come e dove crescerlo. In una società che vede disgregarsi ogni rete sociale, l’unico punto di riferimento per la coppia sono i genitori di lui (Catherine O’Hara e Jeff Bridges), i quali decidono di partire per il Belgio rinunciando, di fatto, al ruolo di nonni. In mancanza di modelli e di esempi da seguire, Burt e Verona partono per un tour negli U.S.A., nel quale si confrontano con varie tipologie di coppia, prendendo da ognuna il bello e il brutto, imparando dalle sofferenze e dalle finte gioie altrui, in una continua crescita e scambio reciproco, che li porterà alla fine del film (e della gravidanza) a sentirsi pronti per diventare genitori.
American Life è un road movie che profuma di indie da tutti i pori, fortemente autocompiaciuto della sua estraneità alle grandi produzioni hollywoodiane.
Sam Mendes decide di girare con pochi soldi e per pochi spettatori, riprendendo in chiave soft il discorso iniziato con American Beauty e proseguito con Revolutionary Road: una messa in discussione della società americana contemporanea e una profonda riflessione sulla difficoltà dei sentimenti e del rapporto di coppia. Abbandonando ogni tocco melò, Mendes lancia i suoi personaggi, “poveri ma belli” e soprattutto molto molto innamorati, in un romanzo di formazione a tratti appassionante, un percorso a sei tappe che racchiude in sé tutto il senso del viaggio, inteso come viaggio interiore ed esteriore: la conoscenza dell’altro come mezzo indispensabile per la conoscenza del sé.
E così da Lowell e Lily (Allison Janney, ormai inchiodata dai film di Solondz al ruolo di donna americana tutta pepe di mezza età) imparano, ad esempio, a dover dare adeguata considerazione ai propri bambini; da Munch e Tom (un Chris Messina in grande spolvero) imparano le rinunce che la scelta di avere dei figli implica; tramite Courtney (Paul Schneider) capiscono l’importanza di restare uniti e di non sottrarsi alle proprie responsabilità, emolto altro. Il regista rende i suoi protagonisti spettatori del loro stesso film, e i suoi spettatori protagonisti di una sorta di viaggio iniziatico, il cui lascito – come in tutti i viaggi – non è mai chiaramente definibile.
Come in American Beauty non esiste un rapporto “normale”, così qui Burt e Verona, non più giovani ma non ancora veramente adulti, hanno paura di essere dei falliti, per poi rendersi conto che la normalità dei sentimenti non esiste. L’importante, sembra voler dire Mendes, è l’amore, quella forza propulsiva che permette di superare ogni difficoltà e di proiettarti verso il futuro. Amarsi sembra essere l’unica via d’uscita a quello che, a ben vedere, è uno scontro dilaniante tra il principio di piacere e il principio di realtà, tra la coppia ideale e la coppia reale.
Purtroppo l’idea del film è annacquata, appunto, da un voler a tutti i costi apparire “carino”, nei vestiti, negli atteggiamenti, nello stile filmico e nella colonna sonora (composta per lo più dal bravo Alexi Murdoch). Il finale è un po’ furbesco, come anche alcuni artifici narrativi, e i “momenti toccanti” si sforzano troppo di essere toccanti. In ogni caso, da vedere.